dalla Carovana Sport sotto l’assedio 2009!

 

13/04/2009


Allo stadio, sotto l’assedio


Italia contro nazionale palestinese
under 18: finisce zero a nove. Ma il pubblico gradisce

da peacereporter.net


Non capita tutti i giorni di entrare in uno stadio e vedere
bandiere palestinesi che sventolano assieme a quelle italiane. Né
di ricevere accoglienza trionfale dalla tifoseria avversaria. Né
tanto meno cantare l’inno di Mameli con il pugno alzato. Questo è
lo scenario in cui si sono trovati domenica 5 aprile i 187 italiani e
italiane della carovana del progetto Sport sotto l’assedio, che è
in Palestina dal 4 aprile per continuare il "percorso di pace
con il pallone nel cuore", come recita il motto della campagna,
nata nel 2004 grazie alla mobilitazione di alcune tifoserie
calcistiche e associazioni sportive italiane.

Allo
stadio di Ar Ram (tra Ramallah e Gerusalemme), al campo di gioco
della Nazionale palestinese, l’unico riconosciuto dalla Fifa nei
Territori Occupati, le squadre italiane erano attese dalla Nazionale
under 18, e dalle alunne della scuola femminile di Gerusalemme Est
"Dar el Tefl el Arabi", che hanno aperto le danze con un
saggio coreografico seguito dagli inni nazionali: mentre i
palestinesi tenevano orgogliosamente le mani sul cuore durante le
note del loro inno, italiane e italiani hanno preferito alzare il
pugno e di seguito cantare Bella Ciao, che in Palestina è una
canzone molto conosciuta. Viste le disfatte clamorose, delle partite
vere e proprie da parte nostra sarebbe meglio non scrivere troppo,
lasciando raccontare l’orgoglio delle vittorie alle cronache del
diffusissimo quotidiano Al-Quds, che il giorno successivo ha dedicato
tutta la prima pagina dello sport a questo evento. Basti sapere che
la squadra maschile italiana è stata battuta per nove a zero,
con un goal annullato ai palestinesi e con un rigore regalato
all’Italia per dare almeno l’opportunità di salvare l’onore,
che però non è stata colta: palla rigorosamente fuori!
La squadra femminile ancora peggio: contro le 11 palestinesi, di cui
solo una era in campo con hijab e tuta a maniche e gambe lunghe, le
italiane hanno perso undici a zero, con nessun tiro in porta. Ma
l’importante, forse mai come in questo caso, era partecipare.

Partecipare
per portare solidarietà concreta e per "rompere l’assedio
attraverso lo sport", dice Simone, 20 anni, che viene da Roma ed
è qui per la prima volta per conoscere direttamente ciò
che ha letto nei libri o sentito raccontare da "altri compagni
dei centri sociali che frequento". Aggregatosi alla carovana per
capire in modo diretto Giuseppe, 53 anni, giornalista precario
("scrivilo questo, precario da anni!") è rimasto
molto impressionato dall’incontro con gli abitanti del campo profughi
di Dehishe, nei pressi di Betlemme, dove si trova l’Ibdaa Cultural
Center, una delle associazioni palestinesi partner del progetto. "Non
avevo proprio idea di come si vive nei campi" ammette Giuseppe,
"non puoi averla se non vieni a vedere di persona. Ma
soprattutto non riesci a capire come sia possibile che queste persone
non abbiano ancora avuto indietro la loro casa e la loro terra, dopo
sessant’anni!". Stupore e indignazione sono i sentimenti che
accomunano un po’ tutte le persone della carovana che sono in
Palestina per la prima volta e che in questi giorni verranno a
contatto con le esperienze quotidiane dei Palestinesi, impareranno
che cosa significa nel concreto la presenza del muro dell’apartheid,
dei check point, delle ingiustizie che non fanno notizia ma che ogni
giorno sono perpetrate dall’esercito israeliano. "Spostarci dal
campo profughi di Dehishe allo stadio mi ha fatto vivere in prima
persona le difficoltà relative alla mobilità",
dice Anna, 24 anni lavoratrice precaria di Milano, che ancora non
riesce a farsi una ragione delle due ore passate sul pullman per
percorre una ventina di chilometri, senza contare il fastidio dei
controlli ai check point. Ma impareranno anche a conoscere e capire
gli usi, i costumi e le tradizioni, con le quali a volte, soprattutto
per le donne, non è facile confrontarsi serenamente: "E’
strano vedere certe donne coperte o che non mangiano assieme a noi",
ammette Valeria, 29 anni, ragusana, precaria e anch’essa alla prima
esperienza in Palestina, "so che non è giusto giudicare
con i miei parametri, che non devo pensare che i miei stili di vita
di donna occidentale siano migliori e che loro sono oppresse mentre
io no; ma mi trovo a disagio. Certamente è un’occasione per
mettersi in discussione", conclude con un sorriso.

Lunedì
il gruppo si è diviso in tre, per prendere percorsi
geograficamente diversi: la carovana può così
attraversare gran parte delle città principali della
Cisgiordania, da Nablus a Betlemme, da Jenin a Ramallah, da Tulkarem
a Jayyus. La novità di questa edizione è il passaggio
per Nazareth, città israeliana che, con un lavoro portato
avanti da mesi, ha preparato una grande accoglienza a Sport sotto
l’assedio. La conferma invece, è che anche per questa volta
c’è il diniego dell’ingresso a Gaza, da dove il progetto manca
dal 2007, poiché l’anno scorso, pur avendo tutti i permessi
richiesti, le 101 persone che si recarono al valico di Eretz furono
respinte con la solita scusa dei non ben precisati motivi di
sicurezza. Stesso pretesto usato per negare l’uscita dalla Striscia
di Gaza alle ragazze della squadra di calcio dell’università
di Al-Aqsa, Gaza city, che nel novembre 2007 erano attese in Italia
ma che non poterono lasciare la loro prigione a cielo aperto, sebbene
anche in quell’occasione i permessi erano stati richiesti e la
campagna Sport sotto l’assedio avesse sostenitori istituzionali quali
enti locali italiani e università. Purtroppo nel nostro paese
arrivarono solo le ragazze della squadra di basket di Betlemme, per
un mese importante, soprattutto se si pensa che queste palestinesi
non hanno affatto facilità di movimento, nel loro paese ma
anche all’estero, a causa dell’occupazione, della povertà e
delle tradizioni sociali patriarcali. Ma fu un mese molto
significativo anche per le studentesse e gli studenti italiani che,
in un susseguirsi di incontri sportivi, politici e culturali ebbero
l’opportunità di conoscere realtà che ignoravano.
Nessuno comunque si dimentica della squadra di Gaza: sebbene la
carovana 2009 non possa entrare, la determinazione rimane. "Prima
o poi Gaza sarà libera", dice Mark, 29 anni, Irlandese
che ha saputo di Sport sotto l’assedio perché ha amici al
centro sociale Strike di Roma e che ha deciso di unirsi al gruppo "e
sarà libero anche il resto del paese, non ci saranno più
i controlli all’aeroporto di Tel Aviv (mi hanno interrogato tre ore
quando sono arrivato!), non ci sarà più il muro né
occupazione". Mark ne è convinto, perché, "come
molti Irlandesi, ho presente la nostra lotta di resistenza contro gli
Inglesi: anche noi eravamo occupati e, come abbiamo vinto noi,
vinceranno i palestinesi". Inchallah, si dice da queste parti
che laicamente può essere tradotto: speriamo.

http://www.globalproject.info/index-it.html

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